Per lungo tempo si è ritenuto che il dolore fisico non differisse tra uomo e donna. Le ricerche degli ultimi anni mostrano invece che i meccanismi che lo provocano sono sostanzialmente diversi nei due sessi. Il quadro emerso è denso di possibili conseguenze, a partire dalla possibilità di nuove cure calibrate per genere. Lo studio statistico di campioni di popolazione in differenti aree geografiche suggerisce che sono molto più le donne ad accusare dolore cronico (spesso protratto per anni).
Un esempio è la fibromialgia, dove su 100 pazienti 98 sono donne, ma si potrebbe citare anche l'emicrania, la neuropatia diabetica, la sindrome del tunnel carpale, la nevralgia del trigemino, la cistite interstiziale, il colon irritabile, i disordini cranio-mandibolari. In queste sindromi dolorose croniche c'è una prevalenza del sesso femminile; anche se esistono comunque sindromi più frequenti negli uomini, come la cefalea a grappolo.
Come si spiegano questi fatti? Cos'è che rende le donne più colpite dal dolore cronico? Anna Maria Aloisi, fisiologa e direttrice dell'European Pain School dell'Università di Siena, è autrice di studi pionieristici che forniscono alcune importanti risposte a questa domanda. «Il ruolo degli ormoni gonadici, cioè gli estrogeni e gli androgeni, è sicuramente parte della risposta. Nella donna in età riproduttiva gli estrogeni attivano il sistema nervoso centrale e ne modificano moltissime funzioni, favorendo una sorta di memoria del dolore. Nel maschio, invece, gli androgeni agiscono sul sistema nervoso centrale deprimendone le attività cerebrali e rendendo l'organismo meno soggetto alle sindromi dolorose croniche». Inoltre, il testosterone, un ormone che è presente in maggiori quantità nei maschi che nelle femmine, svolge un ruolo analgesico favorendo i primi rispetto alle seconde.
In un esperimento, Aloisi e altri colleghi si sono chiesti se il dolore cronico cambi in soggetti in cui gli ormoni gonadici si modificano in maniera drastica, per esempio nelle donne in menopausa e nei transessuali che assumono ormoni femminili. Da questionari compilati dai volontari del test su durata e intensità del dolore dopo il cambiamento ormonale è emerso che con la menopausa molte sindromi dolorose cambiano: alcune possono scomparire e altre, come certi mal di testa, possono persino peggiorare. Inoltre, il 29,8 per cento dei maschi transessuali che consumavano estrogeni riportava sintomi dolorosi cronici che non avevano prima del trattamento.
Visto che in Europa la percentuale di donne che soffre di dolore cronico è di circa il 30 per cento, significa che l'aumento in circolo di estrogeni porta i soggetti maschi a una condizione «femminile», per così dire, per quanto riguarda la frequenza del dolore. Di contro, le pazienti donne transessuali che assumevano testosterone e che soffrivano di dolore cronico miglioravano le loro condizioni: l'ormone maschile funzionava da analgesico.
«La percentuale del 30 per cento, più bassa di quella che uno si aspetterebbe, si spiega con il fatto che c'è un terzo fattore, quello genetico, a giocare un ruolo. I soggetti maschi che hanno sviluppato dolore non lo avrebbero probabilmente mai provato se non avessero alterato i loro livelli ormonali. Tuttavia questi cambiamenti hanno certamente influito sull'attività di uno o più geni». In un altro esperimento, infatti, il gruppo di Sarah Linnstaedt dell'Università del Nord Carolina ha scoperto che nei sangue di donne con dolore cronico al collo, spalle e schiena vi è un contenuto maggiore di alcune molecole di Rna codificate da geni che si trovano sul cromosoma X (che nelle femmine è presente in duplice copia).
Il dolore è quindi il frutto dell'azione, combinata di fattori ormonali e genetici. Su quali siano invece i suoi meccanismi biologici hanno fatto luce gli scienziati Robert Sorge dell'University of Alaban e Jeffrey Mogil della McGill University come riportato dalla rivista Nature. I due scienziati hanno scoperto in esperimenti su topi che la sensibilità al dolore deriva da processi differenti nei due sessi. È come se esistessero due vie distinte all'interno dell'organismo che portano al dolore: l'una quella seguita nei maschi, è basata sulle cellule gliali (cellule presenti nel sistema nervoso) l'altra quella seguita nelle femmine, basata sul ruolo di alcune cellule immunitarie, i linfociti T.
La strada verso trattamenti farmacologici che tengano conto delle differenze tra sessi è quindi aperta. Per esempio, si stanno sperimentando medicine capaci di ridurre le cellule gliali nel midollo spinale. La metformina, per esempio, utilizzata nella terapia del diabete, riduce la sensibilità al dolore nei topi maschi e non ha effetti significativi nelle femmine.
Le prospettive più importanti di queste ricerche riguardano l'uso degli oppioidi nel trattamento del dolore. Come spiega Aloisi, questi farmaci, alla lunga, possono avere effetti deleteri sull’organismo (dall'anemia alla depressione, dall'astenia all'osteoporosi) dovuti al fatto che gli oppiodi fanno diminuire nel sangue i livelli degli ormoni sessuali, soprattutto del testosterone negli uomini.
Molto spesso, però, questo effetto collaterale, il calo ormonale, passa in secondo piano o non viene neppure considerato. Oggi, sulla base delle conoscenze del ruolo degli ormoni maschili e femminili nel dolore, appare ormai indispensabile bilanciare l'uso degli oppioidi con cure ormonali adeguate.
Il dolore cronico colpisce spesso persone giovani, a causa di incidenti o di malattie. Si deve quindi immaginare una terapia che duri per moltissimi anni. E si è visto che pazienti che facevano un pesante uso di oppioidi da molto tempo hanno migliorato moltissimo la loro condizione e la loro qualità di vita semplicemente introducendo una terapia ormonale sostitutiva.
Quando si parla delle differenze del dolore tra sessi non si può non pensare a ciò che spesso si dice, ossia che le donne sarebbero capaci di sopportare il dolore più degli uomini. E la scienza in qualche modo lo conferma. «Lo abbiamo visto nei nostri esperimenti» dice Aloisi. «Il maschio si ferma e aspetta che il dolore passi. La femmina non è che lo "sopporta meglio", però ha un comportamento diverso, "attivo", in cui non può fermarsi aspettando la fine del male. Un comportamento spiegato dalla teoria dell'evoluzione: la reazione della femmina è stata selezionata per aumentare le probabilità di sopravvivenza della prole. Insomma, la femmina non può permettersi il lusso di restare immobile finché il dolore non sia passato. Metterebbe a rischio i figli».


Panorama - Luca Sciortino - 17 aprile 2019

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